giovedì 27 dicembre 2012

La partita


Non era mai stato un forte giocatore, aveva iniziato tardi, a venticinque anni e da autodidatta non si era minimamente preoccupato di studiare i principi della strategia e della tattica che animano questo gioco così complesso.
Si accontentava di muovere un pezzo alla volta senza calcoli di sorta, incurante della propria mediocrità.
Nonostante tutto era riuscito ad ottenere un brillante piazzamento alla prima partecipazione di torneo che gli valse la promozione alla terza nazionale. Erano i primi anni novanta. Corsico, piccolo centro a sud di Milano aveva assunto, suo malgrado, la fama di capitale degli scacchi, grazie ad un circolo che organizzava numerosi tornei e corsi di scacchi. Fu proprio da Corsico che partì la sua avventura, in un caldo week end agli inizi maggio. 
Il “Conte”, compagno di tante battaglie calcistiche e scacchistiche, lo convinse ad iscriversi e lui, vincendo un’iniziale ritrosia decise che avrebbe partecipato, in fondo non aveva nulla da perdere da questa nuova esperienza.
Per la prima volta sperimentò sulla propria pelle l’agonismo del gioco, la lotta contro il tempo decretata da un orologio che incute rispetto concedendoti di pensare salvo poi presentarti il conto se sei troppo riflessivo, l’obbligo di trascrivere ogni mossa sul formulario, ma soprattutto la regola più importante: se non hai carattere, potrai anche vincere qualche partita ma questo gioco, così violento e distruttivo non farà mai per te.
Lasciarsi andare al primo errore preferendo commiserarsi per l’occasione sprecata, proporre patta a giocatori più forti pur essendo in posizione di forte vantaggio sono solo alcuni sintomi di una malattia che se non viene curata in tempo porta il giocatore o pseudo tale alla distruzione del proprio ego perché in realtà è proprio quello che è in gioco.
Ogni partita è lo specchio della vita perché riflette senza possibilità di appello il nostro modo di agire alle difficoltà ed ai vantaggi che si presentano quotidianamente. Non è solo una questione di logica, di calcolo, di conoscenza strategica e tattica, qui entrano in gioco i sentimenti ed una componente psicologica molto forte.  
Iniziò il suo primo torneo, carico di aspettative e di curiosità nei confronti  di un mondo che non aveva mai vissuto così da vicino.
L’enorme stanzone con i tavoli ordinati come banchi al primo giorno di scuola, le scacchiere con gli schieramenti al completo del bianco e del nero intenti a scrutarsi in attesa dell’imminente battaglia, gli orologi tutti sincronizzati sulle ore tre, l’autorità degli arbitri custodi del silenzio e del rispetto delle regole, i segnaposti progressivi che avrebbero distinto nel corso della competizione i primi della classe dagli asini, in una sorta di selezione che solo la natura opera, offrivano agli occhi del giocatore esordiente uno spettacolo coreografico particolarmente suggestivo che conservò nella sua mente per molto tempo.
I giocatori arrivarono in sala gioco in modo caotico, dopo aver versato la quota di iscrizione, tutti in attesa spasmodica di conoscere il nome ed il volto del loro primo nemico da battere. 
Finalmente la stampante a getto d’inchiostro produsse l’atteso oracolo degli accoppiamenti. Prontamente un arbitro si premurò di affiggere in bacheca i risultati del sorteggio.
Un’orda di barbari si precipitò verso di lui accalcandosi di fronte al foglio fresco di stampa. La calca durò pochi minuti e si diradò man mano che i giocatori, presa coscienza del loro destino, si andavano a sistemare ai propri posti.
In tutto questo tempo, fingendosi giocatore navigato, rimase in disparte a gustarsi questo insolito fuori programma poi, quando l’orda venne meno, si diresse verso la bacheca per leggere l’accoppiamento: settima scacchiera, avrebbe giocato col bianco contro Sebastiano Fiori.
Cercò il tavolo e trovò il suo avversario già intento a compilare con cura maniacale le sezioni del formulario: il nome del torneo, il numero del turno, la data, i nomi dei contendenti.  Era un giovane alto e muscoloso che se incontrato dopo il coprifuoco avrebbe destato la preoccupazione di molta gente.  Appena si accorse di lui si sciolse in un sorriso tendendo la mano dalla stretta energica  “Ciao mi chiamo Sebastiano”.
Rispose al saluto con un saluto cercando di non tradire l’emozione e di non farsi frantumare, per quanto possibile, dalla mano energica del contendente. Dopo essersi seduto si accinse a compilare quel formulario che vedeva per la prima volta e attese. Non passò un minuto quando echeggiò forte e decisa l’esclamazione del capo arbitro: “In moto l’orologio del bianco!”.
Il suo primo torneo stava per avere inizio.
Giocò la sua solita apertura di Donna, quella che all’oratorio gli valse i migliori risultati, quasi incurante del controgioco che il nero stava mettendo in atto. Man mano che la partita progrediva, si rendeva conto di come il suo avversario, a discapito dell’aspetto, non fosse un fulmine di guerra.
Mantenne i nervi saldi cercando di evitare qualsiasi errore secondo il credo trapattoniano “primo non prenderle” finché giunse il momento di cogliere l’attimo, di fare la “mossa killer”, quella che ti consente di dominare la partita approfittando dell’errore del tuo avversario.
Alla diciassettesima mossa il nero lasciò imprudentemente indifesa la casa g7 consentendo al bianco un formidabile e devastante attacco di Donna che si  sarebbe concluso qualche mossa più tardi con una brillante vittoria.
Il giocatore nero resosi conto del fatale errore fu colto da un’improvvisa vampata di calore che ridipinse il suo volto. Con la morte nel cuore cercò una strenua difesa ma ad ogni mossa peggiorava ancor più un destino ormai irrimediabilmente scritto. Fermò il timer dell’orologio e tese la mano verso il suo avversario in segno di resa. Alzandosi piegò meticolosamente il formulario ed abbandonò la sala gioco.
Per il bianco si trattava della prima vittoria in carriera e se la voleva gustare in ogni suo particolare.
Rimase seduto ammirando lo spettacolo della scacchiera, le gambe gli tremavano ancora dall’agitazione.
Come in un flashback ripercorse d’un fiato tutto il film del match fino alla mossa killer, quando uno stato di agitazione improvvisa l’aveva investito paralizzando la sua concentrazione: la paura di perdere una partita già vinta aveva rischiato di essere più forte di tutto il resto.
Chiuse gli occhi e subito li riaprì tirando un sospiro di sollievo, la partita l’aveva vinta davvero.

1.d4 Cf6  2. Af4 e6 3. e3 b6 4. Ad3 Ab7 5. Cf3 Ae7 6. h3 Cc6  7. 0-0 d6 8. Cbd2 Cb4 9. De2 Cxd3 10. Dxd3 d5 11. Ce5 Ce4 12. Cxe4 dxe4 13. Dc3 c5 14. Tfd1 Ad5 15. dxc5 axc5  16. b4 Ad6  17. Cc6 Dd7 18. Dxg7 Tf8 19. Ce5 Axe5 20. Axe5 Db5 21. Ad6 Rd7 22. Axf8 e5 23. Dxe5 Rc6 24. Dd6+ Rb7 25. Txd5 1-0

Scritto da Rizzi Pietro

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

Bar Oceano, questo sconosciuto


Io e l’Anthony, la coppia cabaret più rinomata del Ponte di Pietra. Dobbiamo ancora decidere quando sarà il momento di rendere noto al grande pubblico il nostro enorme talento. Forse non lo faremo mai perché il gusto per lo sberleffo altrui che si scatena al primo appiglio che la vita ci offre quotidianamente, si ferma proprio qui.
A noi basta il tributo del Pape  - talentuoso ex calciatore mancato con la passione per l’Inter, la gnocca, la birra, il vino, l’alcool, il fumo e tutti i suoi derivati - che quando ci incrocia non risparmia mai il suo inconfessato riconoscimento con la tipica fragorosa esclamazione “Grandissimo Rizzi!, Grandissimo Fiocco!”.
Non siamo mai stati insensibili al gentil sesso, anzi, nel corso delle nostre scorribande sono numerosissimi gli attestati di stima che abbiamo rivolto alle quote rosa che hanno incrociato le nostre vite. Ma il “ciuula deee” idioma di influsso pavese, l’abbiamo usato solo per incoronare il passaggio di ragazze al top, perché anche noi, alunni di una scuola vecchio stampo  fatta di rigore e sudore, non possiamo permetterci di regalare voti buoni a tutte. Spesso la giuria non ha raggiunto un verdetto unanime, forse perché uno dei due componenti, senza far nomi, ha gusti un po’ più difficili, e in questo caso l’altro componente autoproclamatosi presidente in virtù della consolidata esperienza maturata sul campo è sempre pronto a far partire l’insulto nei confronti del collega, reo di non saper cogliere quegli aspetti positivi seppur ridotti al lumicino che rendono appetibili le signorine.
Ma il tutto si fermava qui, all’allegria per lo sberleffo in quanto tale, in ossequio ad un patto mai scritto che prevedeva una sola regola: mai sconfinare all’atto pratico. Finché un bel giorno si decise di passare ai fatti, al sesso, quello vero. Quale scelta migliore nel valicare il confine, nella terra capitale del Toblerone e della Ricola, da qualche anno divenuta famosa per i locali di intrattenimento notturno rivolti ad adulti più o meno consapevoli in cerca di un’avventura da raccontare ai posteri.
 L’Anthony in qualità di presidente incaricò il collega di giuria di condurre una approfondita ricerca sul web per individuare il locale più idoneo a rispondere alle esigenze di qualità (alta) e prezzo (basso) dei due avventurieri. La scelta cadde sul “Bar Oceano” di Lugano, popolato  - a detta dell’official web site – da avvenenti signorine sudamericane  sempre pronte a far festa ad un prezzo ragionevole.
Si decise di partire il sabato sera di un afoso mese di luglio dopo un briefing pomeridiano presso il negozio del macellaio – tana interista -  dove alla presenza dei fratelli piranha, affezionati clienti di fede bianconera, si misero a punto quasi tutti i dettagli della gita fuoriporta.
Ricordo ancora la domanda del “Macello”, questo il suo nome in gergo,  rivolta al mio socio: “Sapete dov’è il posto? Vi presto il navigatore?” e ricordo ancor meglio la risposta del presidente di giuria, proferita con l’orgoglio di chi considera la tecnologia inutile complicazione per la vita di tutti noi: “Non mi serve! Quando arrivo a Lugano basterà mettere la testa fuori dal finestrino per sentire il profumo della f***”. 
Alle 20.30 in punto la BMW decappottabile partiva verso l’estero portando dentro di sé le fantasticherie dei due avventurieri. Il viaggio durò quel che doveva durare, circa un paio d’ore anche perché andando al risparmio si decise una volta arrivati alla frontiera di Como, di percorrere la statale svizzera che asseconda con curve e controcurve il verde paesaggio collinare del Canton Ticino concedendo pochi margini di trattativa ad autisti dal piede facile. E finalmente si arrivò a Lugano, città che specchia le sue montagne sul lago, città elegante e piena di luci, città pulita nel solco della tradizione svizzera, città completamente deserta al calar del sole.
L’autista nonché presidente di giuria fu colto da un misto di euforia e di sconcerto. Eravamo arrivati ma non c’era anima viva tutto intorno. Non gli restava che abbassare il finestrino e mettere alla prova il fiuto da segugio che aveva giurato di avere, una qualità innata che avrebbe potuto consentirgli una vita agiata se solo l’avesse utilizzata nella ricerca del tartufo. Sarà stata colpa dell’aria rarefatta delle montagne ticinesi o forse dell’olfatto italico, che in quanto tale vale solo sul nostro territorio, sta di fatto che al primo bivio incontrato nella  città elvetica l’interrogativo è sorto spontaneo: “da che parte andiamo?”.
Il timore di chiedere informazioni su un locale a dir poco equivoco iniziava a farsi largo nelle menti sempre più disorientate dei nostri prodi quando comparve all’orizzonte un’enorme Mercedes bianca con una scritta tanto luminosa quanto inequivocabile sul tetto: era un taxi. L’Anthony virò a sinistra verso la nostra salvezza e la cabrio  - sollecitata d’improvviso - non si mostrò impreparata sciogliendo in un lampo le briglia ai cavalli dichiarati sul libretto di circolazione. In pochi secondi ci accostammo ed io mi ritrovai alla distanza di pochi centimetri da un uomo sulla trentina, esile ed abbronzato, abbigliato da cameriere del cenone di capodanno che tradiva le sue origini italiche del profondo sud mostrando una fila interminabile di catenine e collane d’oro che ornavano la pelle nuda dove il bianco candore della camicia non arrivava.
 Il finestrino elettrico della BMW  - lato passeggero - si abbassò in un lampo azionato diabolicamente dal mio compare. Guardai il taxi driver senza trovare uno straccio di parola e fu allora che il presidente della giuria arrivò in mio soccorso allungando il collo verso di noi per rompere il ghiaccio con la nonchalance che solo un vero anfitrione è in grado di dimostrare: “Scusa, per andare a Pazzallo?”. Pazzallo secondo i nostri astrusi ed improvvisati calcoli geografici doveva essere il paese meta del nostro viaggio. Il taxista rispondendo pragmaticamente al quesito non fece nulla per celare la sua natura indagatrice tutta italiana insinuando una sottile considerazione. “Pazzallo? E’ un paese isolato sulle colline di Lugano. Siete sicuri di dover andare lì?” Un attimo di sconcerto, solo un attimo e l’Anthony cercò affannosamente di riprendere il pallino del gioco. “Ehm, veramente non sono proprio sicuro che sia Pazzallo il paese che stiamo cercando…” poche parole lasciate in sospeso, nella speranza che il nostro interlocutore fosse in grado di decodificare questo s.o.s. subliminale. La scimitarrata del taxista non tardò un secondo: “State mica andando a puttane? Sono adulto e vaccinato, potete anche dirmelo”.  L’Anthony, prontamente e senza imbarazzo “Sì, stiamo cercando il Bar Oceano” . Il taxista abbandonò l’aplomb istituzionale tipico del suo ruolo e recuperando le sue origini nordmesopotamiche si rivolse ai due con tono strafottente: “Potevate dirmelo subito che stavate andando a puttane. Comunque proseguite su questa strada seguendo le indicazioni per Noranco”.
Noranco! La parola magica che fa aprire tutte le porte, l’”Apriti Sesamo” del Canton Ticino era stato proferito ed i nostri prodi dopo un grato saluto erano ripartiti veloci cercando di recuperare il tempo perso, perché le lancette stavano scorrendo inesorabili (tempus fugit).
Al primo semaforo trovando le indicazioni che cercavano, proseguirono dritto fino ad imboccare un’angusta statale costeggiata ai lati da autosaloni e magazzini  all’ingrosso finché d’un tratto spuntò sulla sinistra, come una  amanita muscaria nel bosco di Biancaneve,  la freccia tanto attesa: “Noranco”.
La sportiva svoltò subito percorrendo a fatica una strada che saliva ripidamente assecondando con curve a gomito le bianche case del paese. Il vile asfalto aveva lasciato spazio all’acciottolato che sapeva di antico.
Questo borgo senz’anima viva e senza luci poteva veramente accogliere il più famoso bordello del Canton Ticino? L’interrogativo cominciava a profilarsi nelle menti sempre più annebbiate dei due amici finché la risposta giunse da sé. Arrivati alla sommità del borgo la strada trasformò nuovamente le sue sembianze diventando sterrata fino a terminare.
Da una recinzione posta sul lato sinistro era spuntato un giovane asino che ci scrutava silenzioso con sguardo interrogativo. “Ci scusi per la visita inaspettata e soprattutto per l’orario poco opportuno”, parole che avrei dovuto pronunciare se solo mi fossi reso conto del terribile disagio che gli stavamo arrecando. L’orologio digitale registrava inesorabile il passare del tempo: i quattro zeri della mezzanotte apparvero sul led.
Il taxista ci aveva fregato, ma forse questo era l’ultimo dei nostri problemi perché  ciò che più contava era trovare il bordello.  Tornare senza in tasca uno straccio di avventura da raccontare, da mostrare come il trofeo del primo classificato nella gara di pesca al boccalone, ci sarebbe valsa una squalifica a vita ed una notorietà in tutto il quartiere che avremmo volentieri evitato (Quando il quartiere è piccolo la gente mormora).
Ingranata la retro l’Anthony ripercorse d’un fiato tutta la strada di prima fino a ritrovarsi al cartello che segnalava l’ingresso del paese.
Da qui in poi iniziò un peregrinare caotico nella consapevolezza che nessuno ci avrebbe potuto aiutare. Ci immettemmo nell’angusta statale alla ricerca spasmodica del fantomatico bordello senza alcun risultato, ritornammo sui nostri passi percorrendo strade secondarie … nulla di nulla finché l’Anthony non scorse in lontananza un grande parcheggio con molte automobili assiepate vicino ad un edificio la cui insegna, luminosa ad intermittenza, ci dava le spalle. Una vampata di entusiasmo ci rianimò. L’auto fu lanciata con decisione verso la nuova meta, eravamo sicuri che il bersaglio fosse stato colpito. Man mano che ci avvicinavamo al parcheggio, l’insegna che ci dava di spalle diventava sempre più grande, luminosa e accattivante come doveva e poteva essere per un luogo di intrattenimento notturno.
Arrivati alla meta comparve in tutta chiarezza di cosa si trattava: “Bowling” era la scritta che capeggiava, ad indicare che in quel posto non c’erano palle da raccontare ma solo birilli da abbattere.
Lo sconforto totale fu più forte di tutto il resto. Guidammo ancora per un’ora buona senza meta, come drogati in astinenza. Alla fine imboccammo la strada del ritorno imprecando contro la Svizzera, il cioccolato ed i bordelli nascosti.
Anche noi avevamo un’avventura da raccontare ai posteri.
Scritto da Rizzi Pietro

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

Il calciomercato


Il Mac nuovo è un grande stimolo per iniziare a scrivere, in fondo è sempre stata la mia passione e le più grandi soddisfazioni le devo proprio alle parole messe in fila l’una all’altra più che alla timida oratoria che come un freno a mano ha spesso irrimediabilmente compromesso rapporti e relazioni creando al tempo stesso un’inferiorità numerica che nel mondo del calcio come nella vita di tutti i giorni non paga mai, anzi spesso porta alla sconfitta.
D’altronde nelle relazioni interpersonali  quel che conta è avere la risposta pronta condita ad un pizzico di sfacciataggine,  un mix quasi inespugnabile che rinforza l’autostima ed induce a non abbassare mai lo sguardo né a modificare o abbassare il tono di voce di fronte a chiunque.
Per il fragile non esiste alternativa all’accettazione supina di un verdetto già scritto, da subire silenziosamente insieme ai capi di imputazione che gli vengono contestati con prosopopea.
Rimuginare a distanza di giorni, settimane, mesi ed anni il torto subito, può portare a conseguenze  violente e comunque sempre inaspettate poiché spesso tra i fragili si celano finti tali che aspettano solo l’occasione giusta per dimostrare di far parte solo per caso di un gregge sempre disposto a belare a comando.
Per esperienza personale tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno provato a mettermi i classici bastoni tra le ruote hanno dovuto pagare dazio anche a distanza di anni… Nel corso del tempo ho cambiato solo il mio modus operandi diciamo che mi sono raffinato ma il fuoco del vendicatore mascherato non si è mai spento.  Ricordare tutte le mie imprese non è poi così difficile perché nonostante il tempo trascorso, i ricordi sono ancora nitidi e basta una parola, un’immagine, un volto per farli riaffiorare insieme ad un sorriso un po’ orgoglioso che dipinge le mie labbra.
Tra le mie malefatte resterà agli annali, per lo meno i miei, il famoso calciomercato organizzato ai danni di molti miei ex compagni di squadra. Era l’anno della maturità, un anno scolasticamente parlando da dimenticare che mi portò al passaggio del turno solo ai supplementari, per il rotto della cuffia grazie all’intercessione della mitica Sabina, insegnante di greco e membro interno di classe. Ora vuoi per l’influenza benefica della mia adorata insegnante vuoi per il colore pallido tendente al giallastro delle mie scarne guance, il risultato fu raggiunto con il massimo sforzo ed il minimo punteggio (l’allora tristemente famoso 36, una macchia indelebile da occultare ben bene nel curriculum vitae di ogni uomo).
Torniamo a noi, si parlava del calciomercato, una burla nata dalla mia voglia di diventare calciatore a diciotto anni suonati dopo trascorsi calcistici non proprio onorevoli, tra campi di oratorio spelacchiati che vedevo più spesso da una panchina improvvisata ai margini del campo. Calcare il campo, come si dice in gergo, era una rara eccezione, così gracile e così tanto bon nò come si dice dalle mie parti, da indurre gli improvvisati mister di allora ad operare sempre le stesse drastiche e dolorose scelte: “Pietro in panchina”. Dopo questi primi insoddisfacenti trascorsi oratoriali con la maglia numero 15 della mitica Pontese, all’età di dieci anni avevo già maturato la decisione dell’addio al calcio giocato tuttavia per organizzare la partita del commiato era necessario aver fatto panchina almeno in un’altra squadra, così a distanza di otto anni dalla prima traumatica esperienza decisi di ricominciare nella stessa città ma nella squadra di un altro quartiere, confidando nel fatto che le malelingue circolano ma fino ad un certo punto e dopo tanti anni nessuno si sarebbe ricordato delle mie passate imprese, dei miei autogol,  dello stare in campo a modo mio magari con una cuffia in testa se piove o fa freddo. Così la scelta cadde, non a caso, sul Sant’Alessandro, quartiere Vallone. In quel tempo  - passatemi il richiamo biblico - ci giocava il mio amico Stefano, un vero senatore dello spogliatoio che fece da intermediario. Il provino fu un vero disastro e dopo una settimana di intensa preparazione come mai l’avevo fatta in vita mia riuscivo a malapena a camminare. Di fronte a questa drammatica situazione lo staff tecnico dei biancoverdi ci pensò un bel po’ di mesi prima di decidersi a tesserarmi però alla fine la spuntai (caparbietà? Follia allo stato puro? Rosa ridotta allo stremo?) ricominciando da dove avevo finito…la panchina.
Le sparute apparizioni nell’under 18 non lasciarono alcun ricordo nei fans del quartiere, salvo il gran gol in semirovesciata all’ultima di campionato, nella trasferta di San Martino Siccomario, annullato giustamente per un tocco di mani malandrino nonostante il mio marcatore diretto ed ex compagno delle medie, il mitico zazzo bue, avesse cercato in tutti i modi di concedermi un’autostrada verso il gol, stanco dei pesanti insulti che il suo mister gli rivolgeva dall’inizio della partita.
La realtà è che anch’io ci mettevo del mio, refrattario a scendere in campo quando le condizioni del terreno di gioco erano al limite della praticabilità, la mia ovviamente. E anche quando il mister era costretto a schierarmi per scelte obbligate, come avvenne o avrebbe dovuto accadere nella trasferta di Locate Triulzi, bastò un piccolo episodio  nel prepartita per fagli cambiare repentinamente idea. Confesso di essere stato un po’ assonnato per problemi di fuso orario. Fino a notte fonda avevo assistito alla finale di coppa intercontinentale tra la Juventus e l’Argentinos Junior, conclusasi, se la memoria non mi inganna, a favore dei bianconeri dopo un match avvincente nei tempi supplementari. Era l’epoca di Platinì.  Comunque sia mi cambiai solo parzialmente (calzoncini, calzettoni, scarpe chiodate) dimenticando di indossare la maglia della mia squadra e preferendo mantenere, come in un sogno psichedelico, camicia e maglione. In fondo le condizioni meteo non erano delle più confortanti. Fui bloccato sulla soglia dello spogliatoio da una voce tra il preoccupato ed il rassicurante “Caso mai subentri nella ripresa”.
Ma torniamo alla burla del calciomercato. Qual’è stato  il fattore scatenante? La molla che trasforma un panchinaro nel vendicatore mascherato? Ripensandoci a distanza di anni è troppo semplice puntare il dito sui miei compagni di squadra, su uno “spogliatoio” che non è stato in grado di decifrare il talento nascosto del sottoscritto ma al contrario era pronto allo sberleffo al primo accenno di cappella in allenamento. Il piatto freddo della vendetta è stato servito a distanza di qualche mese. Sul finire di agosto il fiacco calciomercato giovanile è stato rianimato d’un botto, come spesso avviene ai piani alti del calcio quando una squadra annuncia a sorpresa l’ingaggio di un campione, grazie ad una mia idea malsana  - il mio marchio di fabbrica - balenata dopo aver appreso con grande rammarico di non rientrare nei futuri piani dello staff tecnico bianco verde. Si trattava di organizzare un provino “collettivo” presso lo stadio del Pavia invitando i miei ex compagni di disavventura.
Grazie alla complicità del Fabius inossidabile compagno di giochi e soprattutto di scherzi, furono contattati numerosi giovani calciatori dal precario talento offrendo loro un’opportunità più unica che rara, direi imperdibile: il provino nella squadra della loro città, il Pavia.  Grazie ai dettagliati suggerimenti che gli fornivo, il Fabius fu in grado, nell’arco di mezza giornata di ottenere il sì al provino da almeno una ventina di giovani promesse. L’appuntamento era fissato alle 17.00. Io e il Fabius ci appostammo da veri professionisti del crimine dietro il ponticello in ferro che una volta attraversato dà accesso al piazzale del “Pietro Fortunati”, lo stadio del Pavia. Eravamo invisibili, mimetizzati come Viet Cong dietro la lamiera e le erbacce cresciute selvagge in riva al fiume.
Arrivarono alla spicciolata, chi in motorino, chi in bicicletta, chi in macchina accompagnati da genitori, tutti con i borsoni dell’allenamento carichi di magliette, calzoncini, scarpe chiodate e speranze. Appena si riconobbero furono colti da una strana sensazione mista di incredulità ed invidia. Possibile che questo privilegio era stato esteso a tutti loro? Si abbracciarono cordialmente dissimulando i loro sentimenti, consapevoli che questa selezione li poneva tutti come potenziali nemici. Rimasero nel piazzale per più di un’ora nell’attesa spasmodica che qualcosa accadesse, poi si decisero ad entrare.
Le gradinate erano deserte e il silenzio di uno stadio senza tifoseria era rotto solo dal vociare di alcuni pensionati troppo intenti a giocare a scopa d’assi nei tavoli del bar sotto la tribuna per degnarli di uno sguardo. Il terreno di gioco che avrebbero voluto calcare era gelosamente custodito da un giardiniere intento a sorvegliare il movimento regolare del getto degli irrigatori automatici. La stagione agonistica era alle porte per lo meno per i giocatori che il Pavia aveva deciso di convocare davvero.
Scritto da Rizzi Pietro

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.