Il Mac nuovo è un
grande stimolo per iniziare a scrivere, in fondo è sempre stata la mia passione
e le più grandi soddisfazioni le devo proprio alle parole messe in fila l’una
all’altra più che alla timida oratoria che come un freno a mano ha spesso
irrimediabilmente compromesso rapporti e relazioni creando al tempo stesso
un’inferiorità numerica che nel mondo del calcio come nella vita di tutti i
giorni non paga mai, anzi spesso porta alla sconfitta.
D’altronde nelle
relazioni interpersonali quel che conta
è avere la risposta pronta condita ad un pizzico di sfacciataggine, un mix quasi inespugnabile che rinforza
l’autostima ed induce a non abbassare mai lo sguardo né a modificare o
abbassare il tono di voce di fronte a chiunque.
Per il fragile non esiste alternativa
all’accettazione supina di un verdetto già scritto, da subire silenziosamente insieme
ai capi di imputazione che gli vengono contestati con prosopopea.
Rimuginare a
distanza di giorni, settimane, mesi ed anni il torto subito, può portare a
conseguenze violente e comunque sempre
inaspettate poiché spesso tra i fragili si celano finti tali che aspettano solo
l’occasione giusta per dimostrare di far parte solo per caso di un gregge
sempre disposto a belare a comando.
Per esperienza
personale tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno provato a mettermi i
classici bastoni tra le ruote hanno dovuto pagare dazio anche a distanza di
anni… Nel corso del tempo ho cambiato solo il mio modus operandi diciamo che mi
sono raffinato ma il fuoco del vendicatore mascherato non si è mai spento. Ricordare tutte le mie imprese non è poi così
difficile perché nonostante il tempo trascorso, i ricordi sono ancora nitidi e
basta una parola, un’immagine, un volto per farli riaffiorare insieme ad un
sorriso un po’ orgoglioso che dipinge le mie labbra.
Tra le mie
malefatte resterà agli annali, per lo meno i miei, il famoso calciomercato
organizzato ai danni di molti miei ex compagni di squadra. Era l’anno della
maturità, un anno scolasticamente parlando da dimenticare che mi portò al passaggio del turno solo ai
supplementari, per il rotto della cuffia grazie all’intercessione della mitica
Sabina, insegnante di greco e membro interno di classe. Ora vuoi per
l’influenza benefica della mia adorata insegnante vuoi per il colore pallido
tendente al giallastro delle mie scarne guance, il risultato fu raggiunto con
il massimo sforzo ed il minimo punteggio (l’allora tristemente famoso 36, una macchia
indelebile da occultare ben bene nel curriculum vitae di ogni uomo).
Torniamo a noi, si
parlava del calciomercato, una burla nata dalla mia voglia di diventare
calciatore a diciotto anni suonati dopo trascorsi calcistici non proprio
onorevoli, tra campi di oratorio spelacchiati che vedevo più spesso da una
panchina improvvisata ai margini del campo. Calcare
il campo, come si dice in gergo, era una rara eccezione, così gracile e così
tanto bon nò come si dice dalle mie
parti, da indurre gli improvvisati mister di allora ad operare sempre le stesse
drastiche e dolorose scelte: “Pietro in panchina”. Dopo questi primi
insoddisfacenti trascorsi oratoriali con la maglia numero 15 della mitica
Pontese, all’età di dieci anni avevo già maturato la decisione dell’addio al
calcio giocato tuttavia per organizzare la partita del commiato era necessario
aver fatto panchina almeno in un’altra squadra, così a distanza di otto anni
dalla prima traumatica esperienza decisi di ricominciare nella stessa città ma
nella squadra di un altro quartiere, confidando nel fatto che le malelingue
circolano ma fino ad un certo punto e dopo tanti anni nessuno si sarebbe
ricordato delle mie passate imprese, dei miei autogol, dello stare in campo a modo mio magari con una
cuffia in testa se piove o fa freddo. Così la scelta cadde, non a caso, sul Sant’Alessandro,
quartiere Vallone. In quel tempo -
passatemi il richiamo biblico - ci giocava il mio amico Stefano, un vero
senatore dello spogliatoio che fece da intermediario. Il provino fu un vero
disastro e dopo una settimana di intensa preparazione come mai l’avevo fatta in
vita mia riuscivo a malapena a camminare. Di fronte a questa drammatica
situazione lo staff tecnico dei biancoverdi ci pensò un bel po’ di mesi prima
di decidersi a tesserarmi però alla fine la spuntai (caparbietà? Follia allo
stato puro? Rosa ridotta allo stremo?) ricominciando da dove avevo finito…la
panchina.
Le sparute
apparizioni nell’under 18 non lasciarono alcun ricordo nei fans del quartiere,
salvo il gran gol in semirovesciata all’ultima di campionato, nella trasferta
di San Martino Siccomario, annullato giustamente per un tocco di mani
malandrino nonostante il mio marcatore diretto ed ex compagno delle medie, il
mitico zazzo bue, avesse cercato in tutti
i modi di concedermi un’autostrada verso il gol, stanco dei pesanti insulti che
il suo mister gli rivolgeva dall’inizio della partita.
La realtà è che
anch’io ci mettevo del mio, refrattario a scendere in campo quando le
condizioni del terreno di gioco erano al limite della praticabilità, la mia
ovviamente. E anche quando il mister era costretto a schierarmi per scelte
obbligate, come avvenne o avrebbe dovuto accadere nella trasferta di Locate
Triulzi, bastò un piccolo episodio nel
prepartita per fagli cambiare repentinamente idea. Confesso di essere stato un
po’ assonnato per problemi di fuso orario. Fino a notte fonda avevo assistito alla
finale di coppa intercontinentale tra la Juventus e l’Argentinos Junior,
conclusasi, se la memoria non mi inganna, a favore dei bianconeri dopo un match
avvincente nei tempi supplementari. Era l’epoca di Platinì. Comunque sia mi cambiai solo parzialmente (calzoncini, calzettoni,
scarpe chiodate) dimenticando di indossare la maglia della mia squadra e preferendo
mantenere, come in un sogno psichedelico, camicia e maglione. In fondo le
condizioni meteo non erano delle più confortanti. Fui bloccato sulla soglia
dello spogliatoio da una voce tra il preoccupato ed il rassicurante “Caso mai
subentri nella ripresa”.
Ma torniamo alla burla
del calciomercato. Qual’è stato il
fattore scatenante? La molla che trasforma un panchinaro nel vendicatore
mascherato? Ripensandoci a distanza di anni è troppo semplice puntare il dito
sui miei compagni di squadra, su uno “spogliatoio” che non è stato in grado di
decifrare il talento nascosto del sottoscritto ma al contrario era pronto allo
sberleffo al primo accenno di cappella in allenamento. Il piatto freddo della
vendetta è stato servito a distanza di qualche mese. Sul finire di agosto il fiacco
calciomercato giovanile è stato rianimato d’un botto, come spesso avviene ai
piani alti del calcio quando una squadra annuncia a sorpresa l’ingaggio di un
campione, grazie ad una mia idea malsana - il mio marchio di fabbrica - balenata dopo
aver appreso con grande rammarico di non rientrare nei futuri piani dello staff
tecnico bianco verde. Si trattava di organizzare un provino “collettivo” presso
lo stadio del Pavia invitando i miei ex compagni di disavventura.
Grazie alla
complicità del Fabius inossidabile
compagno di giochi e soprattutto di scherzi, furono contattati numerosi giovani
calciatori dal precario talento offrendo loro un’opportunità più unica che
rara, direi imperdibile: il provino nella squadra della loro città, il
Pavia. Grazie ai dettagliati
suggerimenti che gli fornivo, il Fabius fu in grado, nell’arco di mezza
giornata di ottenere il sì al provino da almeno una ventina di giovani promesse.
L’appuntamento era fissato alle 17.00. Io e il Fabius ci appostammo da veri
professionisti del crimine dietro il ponticello in ferro che una volta
attraversato dà accesso al piazzale del “Pietro Fortunati”, lo stadio del
Pavia. Eravamo invisibili, mimetizzati come Viet Cong dietro la lamiera e le
erbacce cresciute selvagge in riva al fiume.
Arrivarono alla
spicciolata, chi in motorino, chi in bicicletta, chi in macchina accompagnati
da genitori, tutti con i borsoni dell’allenamento carichi di magliette,
calzoncini, scarpe chiodate e speranze. Appena si riconobbero furono colti da
una strana sensazione mista di incredulità ed invidia. Possibile che questo
privilegio era stato esteso a tutti loro? Si abbracciarono cordialmente dissimulando
i loro sentimenti, consapevoli che questa selezione li poneva tutti come
potenziali nemici. Rimasero nel piazzale per più di un’ora nell’attesa
spasmodica che qualcosa accadesse, poi si decisero ad entrare.
Le gradinate erano
deserte e il silenzio di uno stadio senza tifoseria era rotto solo dal vociare
di alcuni pensionati troppo intenti a giocare a scopa d’assi nei tavoli del bar
sotto la tribuna per degnarli di uno sguardo. Il terreno di gioco che avrebbero
voluto calcare era gelosamente custodito da un giardiniere intento a
sorvegliare il movimento regolare del getto degli irrigatori automatici. La
stagione agonistica era alle porte per lo meno per i giocatori che il Pavia
aveva deciso di convocare davvero.
Scritto da Rizzi Pietro
Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
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